Storia di un’Arte senza confini: scambi di sguardi e gesti oltre la cornice
In un sistema di fruizione dell’Arte di matrice tradizionale, siamo naturalmente e convenzionalmente portati a relazionarci con l’artista attraverso le sue opere, alle quali egli consegna fatti storici, idee e moti interiori, affinché siano trasmessi e celebrati dalla memoria collettiva presente e futura.
In questo senso, è evidente come il cardine fondamentale del rapporto comunicativo tra artista ed osservatore sia costituito dall’opera d’arte, la quale può fornire molteplici chiavi di lettura ed essere suscettibile di diverse interpretazioni, a seconda del pubblico che le si ponga dinanzi, del momento storico presente e del background culturale ed esperienziale del singolo individuo. Gli artisti, che per definizione sono dei visionari in grado di cogliere in anticipo problematiche politico-sociali del proprio tempo e oltre, ne sono ben consapevoli e chi tra loro meglio padroneggia gli strumenti espressivi e tecnici a sua disposizione, può dirsi in grado di manipolare quanti si riconoscano nelle dinamiche emotive e culturali che l’autore vuole maggiormente far emergere.
L’artista lancia il suo appello alla massa, le tende la mano e attende che sia il suo pubblico a rispondere, perché senza pubblico, è evidente, l’Arte perde la sua funzione sociale e con essa la possibilità di comunicare.
In che modo questa ricerca di attenzioni si manifesti all’interno dell’opera è qualcosa che possiamo solo tentare di sfiorare, senza alcuna pretesa di trarne delle categorizzazioni, dato che, come si è detto, questo aspetto è solo uno degli infiniti riflessi dell’intima espressività artistica.
Certo è che sono innumerevoli gli esiti di tali riflessioni che potremmo rintracciare nella Storia dell’Arte e in questa sede ragioneremo su una selezione che ci aiuti a ripercorrere il ruolo del pubblico e il suo rapporto con le opere d’arte, aprendo la narrazione oltre il confine fisico del supporto.
Non è un caso che sia stato proprio un pittore, Leonardo, a tornare più volte, nel suo Trattato della Pittura, sul tema dell’orizzonte e della mutevolezza del confine tra terra e cielo, che varia non solo in funzione della nostra posizione geografica, ma anche in relazione al nostro modo di percepire la mutevolezza e contingenza del mondo fisico.
Le riflessioni che Leonardo ci consegna sono il primo tentativo di aprire la discussione su un orizzonte non astronomico-scientifico, bensì percettivo, spostando il focus sul ruolo dell’osservatore, ergendo il suo punto di vista a “privilegiato”.
Vedremo, infatti, come aprendo una finestra nella scena del quadro, sospendendo un velo o un sipario tra noi e l’immagine pittorica – come Uomo che fuma una pipa dell’olandese Gerrit Dou, in cui il pittore emerge oltre un tendaggio dipinto che sembra appartenere più alla dimensione dello spettatore che del quadro – ovvero dipingendo una cornice fittizia all’interno di quella materiale, la netta distinzione tra finzione e realtà possa vacillare – è questo il caso della Ragazza in una cornice di Rembrandt, le cui mani, con un incredibile effetto di trompe-l'oeil, sembrano varcare la soglia per protendersi verso l’osservatore, oltre il quadro.
Gerrit Dou, Uomo che fuma una pipa, 1650 circa, olio su tavola, 48 × 37 cm, Rijksmuseum, Amsterdam
Rembrandt, Ragazza in una cornice, 1641, olio su tela, 105,5 x 76 cm, Castello Reale di Varsavia
Il coinvolgimento non avviene solo tramite illusioni ottiche e giochi prospettici, ma si manifesta anche – e soprattutto – in sguardi e gesti, come in Venere, Marte e Amore, dipinto del Guercino datato 1633 e conservato nelle Gallerie Estensi di Modena. Poco importa che il committente e destinatario originario fosse il Duca d’Este: chiunque si ponga dinanzi al quadro diventa immediatamente complice del tradimento che sta per consumarsi alle spalle di Marte, tra Venere e l’osservatore stesso, che la dea indica ad Amore quale scelta prediletta, passando da “osservatore” a “osservato”.
Allo stesso modo, anche il ruolo del pubblico è spesso profondamente stravolto: da spettatore passivo ad attore catapultato nella dimensione dell’opera d’arte. Un processo che ha anch’esso origine nell’arte storicizzata e sui cui esiti gli artisti hanno largamente riflettuto nella pittura a cavallo tra il XVI e XVIII secolo.
«Se la soglia dello spazio dipinto è un luogo di transizione e transazione, lo spazio reale dello spettatore non è radicalmente estraneo a quello dell’immagine. Anzi, sempre più spesso nella pittura tra, e in forme a volte assai sofisticate, l’osservatore davanti al quadro finisce per interferire con ciò che vi è rappresentato. Ancorché di passaggio, non passa inosservato, i personaggi raffigurati se ne accorgono e reagiscono. Persino un cieco – nel suggestivo dipinto di Bartolomeo Schedoni – “avverte” la presenza, per quanto immobile e silenziosa, di qualcuno lì di fronte e lo fissa in attesa: l’osservatore, paradossalmente, diventa osservato. E l’immagine ne approfitta, si pronuncia».
Roberto Schedoni, La Carità, 1611, olio su tela, 180cm x 128 cm, Galleria di Capodimonte, Napoli
Nella storia dell’arte è stato il Barocco a segnare un momento di svolta fondamentale: il coinvolgimento emotivo dello spettatore e la sua partecipazione attiva sono sintomo di un’opera che si trasforma in uno spettacolo teatrale a tutto tondo, curando nei dettagli presentazione, luce, allestimento, effetto sorpresa e dissolvenze. Il motore di questa rivoluzione è la Chiesa Cattolica che, risanata con il Concilio di Trento (1545-1563) la sanguinosa frattura aperta dalla riforma protestante, ha bisogno di recuperare il rapporto con i suoi fedeli e per farlo tenta la strada dell’approccio emotivo, raccontando una nuova storia della dottrina, in chiave più intima e coinvolgente, spesso ricorrendo a rappresentazioni viventi e spettacolari apparati effimeri. Quella che nasce come lotta religiosa in realtà si estende alla condotta umana e alla politica: il rapporto tra individuo e Stato riflette quello tra uomo e Dio. Per i protestanti, infatti, il solo tramite tra divino e terreno è la Grazia, ma nulla l'uomo può fare per ottenerla. I cattolici affermano, invece, che Dio contempla il ruolo dell’uomo e pesa le sue scelte, cercando di orientarle in un’ottica salvifica. Non di meno, la questione religiosa ha anche un risvolto sociale: la disputa è tra l’idea di una fede vissuta individualmente – propria del Credo protestante – e una fede collettiva, di condivisione della Parola di Dio. La Cultura, in questo senso, si comporta come strumento di conoscenza e consapevolezza, che apre la strada alla Salvezza. Per questo la Chiesa, a partire dal Seicento, sposerà l’idea di comunicare il messaggio salvifico di Dio con un linguaggio immediato e comprensibile ad ogni strato sociale, dall’erudito al popolo analfabeta.
E per fare questo, quale strumento migliore dell’Arte? Ecco, quindi, che l’Arte si reinventa, ergendosi a modello di comportamento, con esiti che spesso degenerano verso la persuasione. Tutto ciò comporta una conseguenza sostanziale: l’opera diventa il mezzo di comunicazione – e di retorica – per eccellenza.
L’artista è consapevole del ruolo a cui è chiamato, e lo accetta: «per potere efficacemente persuadere – scrive Argan – bisogna essere persuasi: più ancora che della verità o della bontà delle cose che si affermano ed a cui si vuole persuadere, della possibilità e dell’utilità della comunicazione umana». E così in Pietro da Cortona, per esempio, «la decorazione non è più favola, ma orazione e spettacolo: l’artificio, non più dissimulato, mostra che per il Cortona l’arte è il mezzo specifico della celebrazione allegorica».
Ecco che lo spettacolo del Barocco va in scena con i grandi nomi della Storia dell’Arte, quali i già citati Guercino e Rembrandt, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Orazio e Artemisia Gentileschi, Pieter Paul Rubens, Annibale Carracci, Johannes Vermeer, Antoon Van Dyck, Nicolas Poussin, solo per citarne alcuni.
Gli esiti di questa corrente artistica sono assolutamente inediti e destinati a scrivere un nuovo capitolo del rapporto tra opera d’arte e fruitore – che, proprio dall’avvento del Barocco, possiamo a pieno titolo iniziare a definire “spettatore”.
In pittura, le tele diventano quinte teatrali, incorniciate da pesanti drappeggi di un intenso color rosso, come nell’interpretazione di Caravaggio dell’episodio di Giuditta e Oloferne, in cui la scena si offre allo spettatore che si ritrova complice del delitto, ovvero intruso inopportuno. Quindi la partecipazione dell’osservatore può anche celare una chiave di lettura inquietante e instillare un senso di disagio, come nel caso della Salomè di Guido Reni, in cui lo spettatore si trova a vestire i panni di Erode che riceve in offerta la testa del Battista; oppure del Cristo e l’adultera di Mattia Preti, nel quale Gesù ci invita a scagliare per primi la pietra.
Mattia Preti, Cristo e l'adultera , 1630-1650 circa, olio su tela, 106 × 133 cm, Galleria Spada, Roma.
Ma oltre la cornice si può sbirciare nelle camere da letto più famose della Storia dell’Arte e sperare di incontrare lo sguardo di un impertinente giovane o di una donna dalle suadenti curve, come nei più celebri dipinti di Rubens.
Ancora, l’Arte del Seicento ha sperimentato non solo la pittura, come mezzo di comunicazione e coinvolgimento narrativo. Il riferimento, in questo senso, è agli apparati effimeri che, soprattutto nei momenti di festa, hanno dato nuovo volto al paesaggio urbano.
Le occasioni erano le più disparate, sia di natura sacra che profana: dalle feste religiose “comandate” alla canonizzazione di santi e l’elezione di nuovi papi; dalla celebrazione di episodi tratti dalla vita dei regnanti, alle vicende politiche degli stati alleati, fino alle feste popolari di antica tradizione, come il Carnevale.
Alcune caratteristiche ricorrenti accomunavano tra loro eventi di così diversa natura e tra tutte, emergeva la predilezione dello spazio urbano come ambientazione pressoché esclusiva. Qui si snodavano processioni e trionfi, si collocavano archi trionfali lungo le strade, apparati decorativi e d’illuminazione mobili sulle facciate di case, palazzi e chiese; la città con i suoi spazi e le sue architetture era protagonista dell’evento.
A coordinare i lavori era quasi sempre un architetto, scelto tra quelli più in voga a corte. E nel Seicento sono ben pochi gli architetti che hanno potuto competere con il rispetto e la stima goduti da Gian Lorenzo Bernini. Famose sono le “regie” del Bernini sia presso la corte di papa Urbano VIII che, dopo il suo trasferimento in Francia, presso quella francese. Di incredibile magnificenza fu, in particolare, il teatro effimero realizzato in San Pietro, a Roma, in occasione della canonizzazione di Elisabetta del Portogallo: all’incrocio dei bracci, sotto la cupola, l’architetto realizzò una struttura in legno, decorata con finti marmi, stucchi e dorature, impreziosita con 24 colonne intervallate da statue di 14 regnanti portoghesi, dipinte con i miracoli della santa e stendardi.
Tanta maestria nella spettacolarizzazione dell’Arte Bernini la applicò anche alla tecnica scultorea, di cui fu maestro indiscusso. Pensiamo all’Apollo e Dafne, opera dal sapore Barocco non solo per la magnificenza della resa tecnica e l’esasperazione delle emozioni, ma anche – ed è questo il punto che maggiormente ci interessa ai fini delle nostre riflessioni – per il coinvolgimento fisico del fruitore-spettatore, chiamato a muoversi intorno allo spazio dell’opera, per coglierne la narrazione.
L’opera, infatti, va studiata partendo da uno specifico punto di osservazione, ossia quello in cui Dafne ha ancora sembianze umane. La cosa interessante è che il fruitore, ad un primo sguardo, coglie solo un giovane intento a rincorrere una donna, la quale prova, invano, a sottrarsi alla cattura; solo cercando lo sguardo di Dafne lo spettatore realizza che le fattezze umane stanno già abbandonando la ninfa, in procinto di trasformarsi in qualcosa di diverso. In cosa, esattamente, l’osservatore lo scopre solo terminando l’esplorazione dell’opera, da una prospettiva in cui Dafne, ormai, è irriconoscibile: la gamba sinistra ha lasciato il posto alla corteccia di un albero, i capelli sono divenuti fronde e dalla punta delle dita, come rami, spuntano foglie di alloro.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625, marmo, 243 cm, Galleria Borghese, Roma
L’invito, anche qui, è a prendere parte attivamente per entrare in connessione con la storia raccontata dall’artista. Oltre la fruizione passiva, oltre la prima impressione e oltre ciò che siamo convinti di conoscere e padroneggiare, c’è un mondo ancora inaccessibile, che può condurci fino all’estrema conseguenza di sentirci esclusi proprio perché posti sullo stesso piano della narrazione. È questo il caso dell’incredibile invenzione di Giandomenico Tiepolo, che nel dipinto Il Mondo Novo, con arguta ironia sa spiazzare lo spettatore. Quello che vediamo è una folta siepe di pubblico, che si accalca in attesa del proprio turno per poter assistere allo spettacolo del Mondo Novo, appunto, ossia una sorta di piccolo teatro ambulante che nella Venezia del Settecento – in occasione del Carnevale – era messo a disposizione del popolo nelle piazze, per poter osservare giochi di luce e colore ed immagini spesso dal sapore esotico. Ciò che interessa Tiepolo è che i veri protagonisti dell’immagine siano gli spettatori, ripresi di spalle perché la loro posizione rifletta la nostra, al di là del dipinto. “Pubblico” nell'accezione moderna del termine, quale aggregazione di utenti che condividono la convergenza del punto di osservazione in un oggetto di interesse che è il medesimo per tutti.
L’idea di stabilire un contatto oltre il limite fisico dell’opera persiste nella Storia dell’Arte, facendo emergere una continuità tra capolavori storicizzati e nuove tecnologie che, come avremo modo di approfondire in successive riflessioni, muove proprio sul rapporto profondo che lega le immagini al proprio spettatore, tanto più se tali immagini nascono con lo specifico intento di instaurare un rapporto dialogico con i propri interlocutori.
Giandomenico Tiepolo, Il Mondo Novo, 1791, affresco staccato proveniente dalla Villa Tiepolo di Zianigo (Venezia), cm 205 x 525. Venezia, Museo del Settecento Veneziano Ca’ Rezzonico
Nella prima parte di questa rubrica le nostre riflessioni si sono concentrate intorno al periodo del Sei-Settecento, proprio perché nella trattazione precedente si è parlato del ruolo determinante assunto dalla Chiesa controriformista nell’elaborazione di nuove strategie per la comunicazione e il coinvolgimento del pubblico di fedeli.
La storia ci insegna, quindi, che sono i grandi cambiamenti sociali, politici e religiosi a mutare quella che Walter Benjamin definisce “l’aura dell’opera d’arte” in una dimensione più narrativa e inclusiva per lo spettatore.
In generale, per Benjamin il termine “aura” si associa a due caratteri peculiari dell’opera: “unicità e lontananza”, ossia distanza e inavvicinabilità all’uomo. In questo senso, definire l’aura «un’apparizione unica di una distanza, per quanto essa possa essere vicina, non significa altro che formulare […] il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, lontana per quanto vicina».
Sarà evidente al lettore il retaggio spirituale e religioso insito in questa idea di lontananza e intangibilità della cui sovversione vogliamo dare testimonianza in questo scritto, muovendo da due presupposti o «circostanze entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione».
Una chiave di lettura “più politica che estetica” gli rinfaccerà Cesare Brandi nella sua recensione della pubblicazione italiana, nel 1966, del saggio Piccola storia della fotografia. Secondo Brandi, Benjamin intendeva «salvare dall’opera d’arte quel tanto o quel poco che trapassa anche nella riproduzione, proprio per spegnerne definitivamente il carattere “cultuale”, vale a dire religioso, che sentiva stare ancora alla base». Ma per Brandi «nella secolarizzazione indotta dalla riproduzione, l’opera d’arte non perde solo il suo valore cultuale, perde se stessa. Resta un’impronta, come l’impronta del piede sulla sabbia».
Mantenendo le riflessioni di Benjamin quali punto di osservazione privilegiato da cui muovere ulteriori considerazioni, il momento di rottura e distruzione dell’aura si collocherebbe nell’affermarsi delle Avanguardie del primo Novecento. Secondo Benjamin, sarebbero stati i Dadaisti ad aver voluto per primi «uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione», intaccando contestualmente sia il concetto di originalità che di creatività dell’opera d’arte al grido della supremazia dell’idea (o, come da ricorsi storici, del “concetto”) sul manufatto. Tale atteggiamento ha evidentemente creato un’impasse non indifferente nel Sistema dell’Arte: da un lato la spinta all’emancipazione espressiva di matrice ottocentesca (fu Courbet ad inaugurare l’epoca delle mostre indipendenti con una personale organizzata interamente a sue spese), dall’altra l’esigenza di conciliare il nuovo linguaggio espressivo con il Mercato dell’Arte ed il pubblico, posto che il vero – e dichiarato – obiettivo di questo movimento era suscitare la pubblica indignazione: «l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile».
Il salto ulteriore che Benjamin non riesce a cogliere, anche alla luce degli esiti artistici successivi alla pubblicazione del suo volume, è che l’aura non si è dissolta, ma piuttosto si è spostata dall’opera d’arte all’artista, nel suo incessante sforzo di negare “l’oggetto” nella sua fruizione estetica, per innalzare l’idea.
Un ribaltamento di prospettiva che muove i passi dal Realismo, quando l’Arte assume una nuova funzione, non più celebrativa e tautologica, e si introducono nei dipinti personaggi e scene di vita quotidiana. Con le Avanguardie del primo Novecento, questi frammenti di realtà assumono una connotazione materica: è l’epoca dei collage cubisti e dadaisti. Questa sensibilità tattile investirà tutto il Novecento, come necessità di guidare l’Arte verso la riappropriazione della vita e del reale, superando quei valori ormai obsoleti legati all’astrazione e al tardo surrealismo. Il ventennio tra gli anni Cinquanta e Sessanta sarà segnato da una frattura delle frontiere culturali e dall’introduzione di una nuova idea di dimensione collettiva, scardinata dai vecchi retaggi morali.
Difatti, le condizioni economico-sociali legate alle conseguenze dell’ultima Grande Guerra confluiscono nell’individuazione di priorità diverse tra Europa e Stati Uniti d’America: questi ultimi, in particolare, lavorano sulla costruzione di un’identità nazionale forte, che possa competere con la lunga tradizione culturale del Vecchio Continente. Tuttavia, il progredire della società dei consumi permetterà il livellamento e l’unificazione del linguaggio culturale che, reinterpretato in chiave “domestica”, entra nelle case dei consumatori attraverso la pubblicità e nuove forme di espressione popolare 2.0.
Allan Kaprow, 18 Happening in 6 Parts 1959
Negli anni seguenti, l’artista ha intessuto diverse collaborazioni, tra le quali spicca quella con il direttore teatrale Augusto Boal, tra l’altro ideatore – all’inizio degli anni Settanta – del Theatre of the Oppressed, forma artistica creata con l’obiettivo di trasformare la figura del pubblico pagante da mero fruitore passivo a parte attiva, direttamente coinvolta nella rappresentazione: uno “spect - actor”, uno spettatore-attore che guarda e mette in scena contemporaneamente, intervenendo in tempo reale sull’opera.
È su questa scia che si sviluppa, negli anni Novanta, l’estetica relazionale, corrente d’arte teorizzata dal critico francese Nicolas Bourriaud nel 1996. Nell’arte relazionale l’osservatore è parte di una comunità e proprio come comunità – non come individuo – interagisce con l’opera e ne diventa parte: l’artista, in questi termini, si trasforma da creatore a facilitatore, offrendo al pubblico gli strumenti per intervenire nello spazio di dialogo, confronto e relazione aperti dall’opera d’arte. Ne è un esempio il lavoro di Rirkrit Tiravanija, artista di origine thailandese che reinterpreta in chiave artistica il momento sociale per eccellenza, ossia il pasto. Con le sue Temporary Kitchen, improvvisate nei musei più famosi del mondo, accoglie e delizia i visitatori con piatti tradizionali della sua cultura, in una perfetta cornice di confronto e dialogo, oltre il museo – qualcosa di molto simile, se vogliamo, a quanto sperimentato già nel 1970 dall’artista Fluxus Daniel Spoerry, che, invitando a cena gli ospiti della sua mostra e immortalando i resti del pasto in teche di plexiglass attaccate a parete, aveva azzerato ogni distanza tra artista-opera-pubblico.
In un clima di costante ricerca di attenzioni tra il pubblico, con l’intento di stupire ed innescare reazioni, l’Arte ha instillato nell’osservatore comune aspettative sempre maggiori, che non accenna a disattendere. Questi hype standards hanno oggi raggiunto livelli di coinvolgimento incredibili grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, i medium espressivi dell’artista del XXI secolo. Difatti, sono proprio le tecnologie digitali ad aver assunto un ruolo determinante per lo sviluppo dell’interazione spettatore-opera d’arte, aprendo la strada ad infinite possibilità espressive fino a quel momento impensabili.
In questo senso, cruciale è stata l’introduzione, nel processo creativo, di software e hardware in grado di implementare immagini 2D e 3D nella dimensione dell’opera d’arte, non solo sotto il profilo esecutivo, ma anche della fruizione: in un mondo interconnesso, l’Arte viaggia a velocità incredibili sulla rete e può raggiungere un pubblico sensibilmente più vasto. L’arte digitale è, per certi versi, più inclusiva e comunicativa, sia per l’agile reperibilità ed accessibilità, che per il linguaggio in sé, quale specchio del tempo presente.
È la nascita della Net.Art, che si afferma pienamente con la democratizzazione e liberalizzazione dello strumento informatico, passato dalle mani dei soli ingegneri al dominio del pubblico indistinto. La Rete dematerializza l’oggetto artistico, che diventa piuttosto momento di riflessione sulle relazioni e strumento comunicativo oltre i limiti spazio-temporali.
In effetti la Net.Art ha un evidente valore aggiunto: in termini di partecipazione del pubblico, se è vero che happening e performance hanno contribuito notevolmente a mutare lo spettatore in attore, resta pur sempre necessaria la presenza fisica o una registrazione video per poterne godere; introducendo il mezzo informatico, invece, è possibile rendere sempre attuale e presente il momento della fruizione.
Kit Galloway & Sherrie Rabinowitz, Hole In Space, 1980
Nel 1980 gli artisti Kit Galloway e Sharrie Robinowitz realizzano Hole in Space, un’installazione che consiste in un collegamento satellitare tra New York e Los Angeles della durata di tre sere consecutive, durante le quali i passanti hanno potuto spiare e ascoltare l’una e l’altra città. Lo stupore del primo giorno ha lasciato il passo, nelle serate successive, a vere e proprie performance improvvisate dai passanti, in questa dimensione urbana sospesa e condivisa: la Rete si comporta come un palcoscenico pubblico e condiviso simultaneamente.
Tuttavia, la Net.Art ha conosciuto anche un’altra chiave di lettura, incentrata sul codice di programmazione informatico, piuttosto che sulle potenzialità relazionali della Rete. Si tratta della Software Art, cui si deve il merito di aver aperto la riflessione ai molteplici modi di scrivere ed elaborare un’istruzione, secondo processi inaccessibili al pubblico. Ne è un esempio il progetto titolato Web Stalking, realizzato nel 1997 dal gruppo londinese I/O/D. Si tratta di un browser “concettuale” basato sull’interpretazione dell’html che, invece di presentare come esito della ricerca in Rete una pagina web tradizionalmente formattata, svela all’utente l’architettura del sistema, mostrandone i codici di controllo interno sotto forma di “costellazione”. Una mappa in continuo mutamento, in cui i singoli elementi sono restituiti visivamente con dei cerchi ed i link che li collegano con delle linee. L’obiettivo del progetto è oltrepassare l’incomunicabilità tra linguaggio informatico e umano, rendendo l’utente in grado di cogliere la complessità del primo in una chiave a lui più accessibile. Il software ha un suo ruolo creativo, è portatore di senso e non semplicemente un medium esecutivo di funzioni. Da qui la necessità di provare ad indagarne le modalità processuali, anche per svelarne la consistenza “fisica”. Così Tomás Maldonado, tra gli altri, ragionava nella metà degli anni Novanta sul software: «È discutibile, per esempio, definire immateriale il software. A ben guardare il Software è una tecnologia, ossia uno strumento cognitivo che, in modo diretto o indiretto, contribuisce a conti fatti a mutamenti di natura materiale».
Tali mutamenti, che fino al secolo scorso erano intesi ad aprire le frontiere verso innovativi canali di interconnessione, oggi si concretizzano nella possibilità di creare nuovi mondi e spazi in cui incontrarsi e vivere le proprie esperienze. Grazie a sistemi di interfaccia hardware e software quali guanti, caschi, occhiali e programmi di grafica ed elaborazione tridimensionale, l’utente viene catapultato in ambienti artificiali che può abitare e vivere attraverso il proprio movimento; ambienti in grado di restituirgli sensazioni assolutamente credibili. È il trionfo dell’idea platonica di “Arte come mimesi della natura”: dagli espedienti moderni, alla fotografia; dall’introduzione di oggetti della dimensione reale nello spazio dipinto, alla partecipazione attiva dello spettatore quale attore dell’opera d’arte; dalla interconnessione globale offerta dalla Rete, all’immersione in realtà fantastiche, credibili ma frutto dell’estro creativo di artisti-designers.
Con l’applicazione della realtà virtuale al mondo dell’Arte, gli artisti creano interamente nella dimensione digitale dei mondi regolati da proprie leggi, che si materializzano davanti agli occhi dell’osservatore, che può accedere alla mente del loro creatore.
L'artista Giant Swan che scolpisce in Realta' Virtuale
- Serena Nardoni